Quando sentiamo parlare di sostenibilità o di crisi climatica, la nostra mente crea degli immediati collegamenti con la questione ambientale.
In realtà, quando vogliamo indagare sull’impatto di una catastrofe climatica o ci vogliamo porre delle domande sulla reale sostenibilità di un prodotto o di un’azione, dovremmo esplorare non solo il fattore ambientale, ma anche quello sociale.
Per attuare con regolarità questo – tutt’altro che semplice – esercizio mentale, possiamo farci aiutare dall’Ecofemminismo.
Questa branca dell’ecologia (quasi sconosciuta in Italia), analizza come le costruzioni socio-culturali esistenti determinano differenti tipi di vulnerabilità nella popolazione.
Facciamo un esempio pratico: secondo lo studio The gendered nature of natural disasters (Eric Neumayer & Thomas Plümper, 2007), i disastri naturali diminuiscono della metà l’aspettativa di vita delle donne rispetto a quella degli uomini.
Questo effetto è stato visibile, negli anni, in numerose occasioni. Tengo sempre a ricordare il terremoto e maremoto dell’Oceano Indiano, avvenuto nel 2004, che strappò la vita a 230.210 persone, fra queste più del 70% erano donne (Oxfam International). Questa percentuale non è da collegare al caso, ma è la diretta conseguenza di decenni di disuguaglianze culturali di genere: molte donne, infatti, non si erano mai immerse in acqua sopra il ginocchio, poiché, a causa delle normative vigenti, nessuno aveva ritenuto necessario insegnare loro a nuotare.
In questo complicato scenario, è naturale ritenere che una giusta ed equa educazione sarebbe la chiave per salvare molte vite in un futuro non troppo lontano in cui i fenomeni naturali estremi saranno sempre più frequenti.
Questa consapevolezza ha dato la scintilla per creare nuovi importanti progetti come lo Sri Lanka Women’s Swimming Project che, in 15 anni, ha insegnato a nuotare a più di 6.500 donne e a salvare la vita dei propri figli in acque profonde.
Ma non è solo in rari momenti come quello sopracitato che possiamo avvalerci degli studi ecofemministi. Gli effetti dei cambiamenti climatici sullo status e sulla salute delle donne, così come delle persone socialmente marginalizzate, si vedono anche in aspetti della vita di tutti i giorni: basti pensare a come le siccità sempre più frequenti, in alcuni Paesi in via di sviluppo, stiano influenzando il benessere di tutte quelle donne che hanno il compito di raccogliere l’acqua per il proprio villaggio o per la propria famiglia, costringendole a percorrere tratte sempre più lunghe, togliendo così tempo allo studio o al lavoro.
Secondo il report del Malala Fund del 2021, inoltre, le donne sono e continueranno ad essere le principali protagoniste delle ondate migratorie dovute alla crisi climatica. Questo trend in costante crescita porterà all’abbandono scolastico 12.5 milioni di ragazze ogni anno entro il 2025, andando così a triplicare i numeri attuali.
Considerando che gli effetti dei cambiamenti climatici si stanno palesando con una frequenza sempre maggiore anche sulla nostra penisola, dobbiamo certamente iniziare ad approcciarci a questa situazione con una visione femminista intersezionale. Questa ci consente di identificare con maggior chiarezza le diverse forme di oppressione e/o di svantaggio sociale, derivanti dall'esistenza di dimensioni multiple e frammentate dell'identità (religione, disabilità, genere, etnia, orientamento sessuale, etc.) che si intersecano con le dinamiche sociali o istituzionali alle quali ognuno di noi è sottoposto.
In parole molto più semplici: prendiamoci sempre la briga di indagare un po’ più a fondo sulle motivazioni che portano persone diverse a vivere una stessa situazione in maniera differente.
Questo discorso vi ricorda qualcosa? Esattamente: dobbiamo riportare questa visione più olistica e inclusiva anche nei temi legati alla sessualità... Ma per scoprire come farlo dovrete aspettare il prossimo articolo!
Questo articolo è stato scritto da Ilaria Ghaleb, esperta di Ecofemminismo e responsabile della comunicazione di Change for Planet.